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Divino/a


Abbiamo meritato
l'ombra sottile
- gl'asfodeli -
in questo campo
nero di sole
dove tutti soffrono la sete
noi beviamo alle nostre bocche,
mangiamo dei nostri occhi.


Abbiamo dimenticato
il ritmo della vita
per il ritmo
della nostra vena
delicata
l'ombra sottile:
una
fremente, pace.


Abbiamo pronunciata
la Parola,
la Parola
abbiamo pronunciata
nel collo nudo,
presso alle labbra
e presso la fronte
e senza respiro.


Ho
posseduto lo sguardo tuo
fondo
oltre il sorriso dei mari,
fresco
oltre l'alba sui monti.



Come vivere
con questo pensiero

divino/a
tra gli uomini?

sabato 12 novembre 2011 Leave a comment

Che ci dividono il cuore




Tardo pomeriggio, dopo il temporale. Il sole e l’ombra che scendono dividono i valloni della mia montagna in due lati: uno ancora di luce, scintillante dopo la pioggia, uno già d’oscurità, la bruma lo spettina. Il dolore e la contentezza spaccano i cuori in due lembi, e noi l’osserviamo dalla metà, dalla frattura. Non sempre sappiamo da quale parte vogliamo stare. Non sempre la scelta è interessante. Un giorno siamo giovani, un altro siamo anziani. I ripianti li hanno i giovani, gli anziani hanno la calma dell’ineluttabilità. Spaccati. La mia mente è divisa dentro ad un corpo solo. Quando guardo una nuvola la vedo bella perché è spaccata dal cielo, ha un confine, una fine che la rende nuvola, il suo profilo piacevolmente familiare ad un’immagine dolce di poesia rende il cielo tanto vasto da saperlo spaventevole.

Era quel momento tra due luci, quando i colori si fanno intensi
e l’amaranto e l’argento bruciano sui vetri delle finestre
come i battiti di un cuore eccitabile;
quando la bellezza del mondo rivelato,
la bellezza del mondo che dovrà così presto soccombere,
ha due tagli: uno di gioia, l’altro di angoscia,
che ci dividono il cuore.

Grandiose sommità e quelle nuvole le coccolano, e le mie dita sono veloci come quelle di un pianista, mentre suono questa tastiera mi si allarga un sorriso sul volto. Questo gesto consueto. Quanto l’ho amato, quanto ho cercato questa pace. All’improvviso poso un punto, e il silenzio. La liberazione. La mia volontà che si esprime, io mi imprimo a caratteri, la mia voce rimane incastrata nel mezzo dei venti, sceglie un cantuccio, si deposita. Non è la mia vita, è di più, è la mia mente che non morirà. Quella imperiosa, enorme volontà! Ecco cosa sono, se non sono mai morta suicida. Ecco cosa sono se ho scelto, piuttosto di morire, di cavalcare la spaccatura. Se penso ad un gesto familiare e lo rifuggo. Se penso che amo il posto dove mi trovo ma che ne amerò di più un altro. Se penso che se non ci sei e mi manchi, che quando ti ho avuta ti ho buttata tra gli scarti di me stessa, un pasto raffreddato per non curanza e, boia di un cane!, il tempo è scappato con la coda in mezzo alle gambe. Avevo due cuori e uno l’ho ucciso. Metà di quella metà è tuo.

Tu sai che cercherai me, cercherò te,

perché è l’aratro più affilato quello che scava.

Sogni un sogno già fatto e ti piace vederne la fine.

°

°

°




domenica 4 settembre 2011 Leave a comment

Una fiaba, un augurio


- Hai scelto una buona notte, a quanto pare.
- Perché, ho scelto?
- Certo, mia cara.
- Vuoi dire che ho scelto io la notte in cui nascere?
- In un certo senso sì. In pochi lo fanno, ma la possibilità non è negata a nessuno.
- Ah. E tu saresti...?
- Bhe, ma come? Io sono... Uff, complicato.
- ...
- E' poi tanto importante?
- Mah! Come dire...! Direi di sì! Tu, con quelle minuscole manine e quegli occhietti quasi meschini, di certo troppo ravvicinati e incassati nelle orbite, e con quelle due treccine di capelli bianchi che ti scendono dietro le orecchie, e con quelle scarpette a punta, per non parlare del cappello rosso... Tu... sei alquanto curioso. Per non parlare del fatto che mi stai dicendo che ho scelto io il giorno in cui nascere! Questo fa pensare che tu ne sappia qualcosa.
- Io sono un consigliere di... ehm... questo nome non ti dirà forse nulla, ma... sono un consigliere fidato, il più fidato, della Signora delle stagioni. Nello specifico sono il consigliere Estate I, sezione boschi e sottoboschi, reparto nascite umane, specializzazione in Predestinazione conseguita prima del tempo per merito, nonché membro ad honorem del comitato Uniti per la sopravvivenza di licheni, muffe, funghi e altri generi di organismi semplici. Che quest'ultima informazione non ti porti fuori strada, è superflua...
- Ma che dici, gnometto?
- Gnometto non è esatto. Folletto è più appropriato.
- Oh! Folletto! Folle sei folle, fuor di dubbio. E spiegami meglio... tutto questo cosa c'entra con la mia nascita in questa notte?
- Quando tu eri solo un piccolo desiderio che desidera di venire al mondo hai scelto il giorno. O meglio. Hai scelto di essere in due maniere: eccezionale e buona. La Signora delle stagioni sapeva che cosa questo avrebbe significato. Ecco perché ti ha affidato a me, perché io sono Estate I, per esteso Primogiornodestateesolstizioboreale; io sono il giorno dei nati eccezionali e buoni. Eccezionali perché in questo giorno la natura sperimenta alcuni fenomeni irripetibili nel resto dell'anno, e buoni perché questo solstizio racconta la vittoria del sole sul buio. Ecco perché i nati in questo giorno sono di carattere estremamente positivo, sono sempre sorridenti con tutti e sono impossibili da annientare con lo sconforto, come è impossibile impedire al sole di alzarsi.
- Io... Ho scelto...
- Certo, hai avuto il coraggio di scegliere come essere. Ed è una scelta che hai fatto non solo una volta. L'hai rinnovata tutti i giorni della tua vita. E' per questo che tutto ti va e andrà per il meglio, perché non hai mai tradito quello che hai scelto di essere il giorno in cui hai desiderato. La Signora è felice di sapere che un piccolo desiderio di 22 anni fa è diventato una donna in grado di mantenere una decisione presa. Insomma, un desiderio che è rimasto coerente anche nella praticità. Ottima scelta, quel giorno. E complimenti per il coraggio, non è mica da tutti!
- Ehm... grazie. Scusa, sai, sono un po' timida quando mi si dicono le cose belle! A proposito, c'è questa luna incredibile, 'sta notte... C'entri tu anche in questo caso?!
- Sì e no: io l'ho dipinta di arancione, io l'ho gonfiata solo da un lato, io ho dato una spazzata ai crateri per renderli belli nitidi, ma mi è stata chiesta in questo giorno per te da una persona che ti ha molto a cuore...

martedì 21 giugno 2011 Leave a comment

Una storia

Suzanne

Sulla sponda del fiume Suzanne guardava l’acqua passare. Dolce era la primavera quell’anno, il caldo non rompeva l’equilibrio del corpo, il freddo serale non guastava la campagna. Robertine era partita da tre giorni, ma lei non ne sentiva la mancanza. Era sufficiente, a lei, prendersi cura dei fiori del giardino per occupare il suo tempo e, di tanto in tanto, scendeva al fiume per una passeggiata. Dopo pochi minuti che se ne stava seduta scalza e a gambe incrociate sulle sponde umide, incurante della macchia di fango che il terriccio le avrebbe impresso sul sedere, sul quale scendeva morbida una gonna di lino bianco, tentennò sull’idea balzana di fare un bagno nel fiume. In fondo non era freddo il pomeriggio, e sicuramente, se fosse tornata, Robertine non sarebbe giunta prima di sera. Si alzò in piedi, con le mani sollevò quel tanto che basta la gonna per poter entrare nell’acqua fino alle caviglie. La sponda si calava dolcemente e senza particolare discesa nell’acqua, formando, in quell’ansa, un piccolo laghetto in fronte a lei, dove il fiume scivolava calmo e quasi in assenza di corrente. Si guardò intorno con quegli occhi da camoscio, da animale selvatico, scrutò le piante che appena frusciavano le foglie, i fiori selvatici nel prato dietro di lei, i pochi insetti che ronzavano immobili sulla superficie dell’acqua. La stagione della pesca era ancora chiusa, dunque era difficile che ci fosse qualche pescatore appostato da qualche parte, difficile che qualcuno la potesse vedere. Il sole sbieco di maggio dava all’acqua una sfumatura tra il verde e il marrone, e i suoi capelli ricadevano in un ciuffo davanti alla fronte, proprio in mezzo agli occhi: appena umidi dal sudore, appena incollati alla pelle del volto. Le mani bianche e curate senza segni di rozzezza portavano un’unica, sottile, fede di rame al dito anulare della mano sinistra. Con quella stessa mano lasciò andare la gonna e si scostò i capelli; l’orlo, ricamato dalle suore del paese almeno 60 anni prima, era un pizzo tutto traforato, e tra un foro e l’altro si scorgevano le sue caviglie nude, l’erba sulla quale era in piedi, un paio di fiori: un disegno colorato dai contorni bianchi. La gonna era appartenuta alla nonna materna, che aveva passato tutta la sua vita nello stesso paese in cui si trovava lei ora, senza mai lasciarlo, senza mai smettere di odiarlo per essere l’unico ad aver conosciuto, senza mai smettere di amarlo perché non aveva conosciuto altro luogo.

Quando con la mano si scostò i capelli, l’orlo di pizzo cadde a mollo inzuppando il tessuto di acqua e fango. Suzanne non sembrò nemmeno accorgersene, anzi, lasciò la presa anche con l’altra mano, che si portò su un fianco. Prese a camminare lentamente nell’acqua, si spostava lentamente verso il centro del fiume, con passi strascicati sul fondo. Un accenno di sorriso divertito le piegò un lato della bocca all’insù. Immersa fino alle ginocchia si piegò e immerse le braccia fino ai gomiti dentro l’acqua, muovendole lentamente. Si accovacciò sempre più giù, fino a sedersi, con le gambe distese e il busto appoggiato alle braccia, le mani appoggiate sul fondo, spinte giù nel fango. Che piacere! La gonna ondeggiava nell’acqua con la lentezza e la sinuosità propria delle alghe. Quel gesto immotivato la divertiva. Si era sempre sentita confusa nel parlare di felicità e piacere, per un senso di vertigine che avrebbero dovuto provocarle e che invece taceva. La definiva per lo più pace, pace nell’esperienza fuori dall’ordinario, come era quella di sedersi in mezzo all’ansa di un fiume e affondare le mani nella fanghiglia, da sola, autosufficiente, senza amore forse, senza Dio. Sentire la solitudine che viene da molto lontano e che sa di antichissimi profumi appartenuti a vecchissime persone, osservare immagini scolorite di paesi nascosti, e avere nostalgia della felicità e del piacere. Quello era il significato che Suzanne conosceva. Quello era il suo modo di essere felice qui, nel mondo dei vivi.

Perché avesse scelto di continuare a vivere lì, dove tutta la sua famiglia da parte di madre prima di lei aveva vissuto, a tratti non le era chiarissimo. Sapeva di dover rimanere, ma perché? Aveva capito che il viaggio è una dimensione, non è uno stato fisico ma di mente, il cui significato si perde quando si può viaggiare stando fermi. Aveva imparato che ha senso viaggiare solo quando non si può fare a meno di spostarsi per cercare i dovuti cambi di prospettiva. Ma tutto questo Suzanne lo riusciva a fare stando ferma, non aveva bisogno di avvertire il mondo scorrere assieme a lei in un posto lontano; il viaggio è il mezzo per il raggiungimento di uno stato della mente, non è un fine allettante per dare un tono alla propria vita. Quando una persona si mette in viaggio lo fa per cercare qualcosa che non sa trovare a meno di sentirsi in continuo movimento, a meno di sentirsi sperduta, a meno di sentirsi straniera, a meno di sentirsi alla conquista di un nuovo spazio. Le persone viaggiano per sentirsi grandi e per sviluppare un senso in più, il senso di sé stessi. Suzanne si conosceva tanto bene da non averne bisogno, ma nello stesso tempo era sempre in grado di scoprirsi nuova pur essendo circondata da un’unica, monotona scena. Suzanne non era fatta di acqua, ma di aria. Non cercava un contenitore per avere una forma, preferiva essere mutevole e adattabile a seconda del proprio piacimento. Forse è per questo che Robertine faceva spesso enormi sforzi pur di non perderla, una volta in più rarefatta in una dimensione irraggiungibile, una volta in più sospesa sopra tutto e tutti, al seguito di qualche farfalla bellissima che solo lei poteva contemplare.

Si rialzò dalla posizione in cui si trovava, le gambe ormai fresche e le caviglie leggere, scosse la testa per allontanare la solita ciocca ribelle e si avviò verso casa.

Robertine e Inés

Prese l’ultimo paio di pantaloni puliti dalla valigia, li infilò abbinati alla camicia bianca che indossava ormai da due giorni. Non c’era bisogno né di maglia né di giacca. Mise in valigia tutte le sue cose, che già la sera prima aveva radunato in bell’ordine. Diede un’ultima occhiata intorno a sé per controllare di non aver lasciato nulla in giro per la stanza come era solita fare. Riusciva sempre a dimenticare qualche cosa e Suzanne la rimproverava sempre: lei così ordinata, categorica, e Robertine così sbadata e caotica. Quella volta, in ogni caso, le sembrava di aver preso tutto, e solo in seguito si sarebbe accorta di aver lasciato indietro l’accappatoio, e mai avrebbe saputo in quale angolo remoto della stanza l’avesse dimenticato.

Parigi in maggio era già in odore d’estate. Le strade erano calde d’asfalto e motori nelle ore di punta. Uscì dalla stanza chiudendo dietro sé la porta, scese le scale dell’albergo della Bastille, restituì le chiavi alla reception, saldò il conto. Per strada c’era già l’odore di cucina dei tanti bistrot, si era alzata come al solito tardi. In ogni caso non aveva fretta, il treno che l’avrebbe riportata a casa da Suzanne non sarebbe partito prima del pomeriggio. Optò per qualcosa che le faceva sempre piacere: un bicchiere di vino sotto i portici di Place des Vosges. Rue Sant’Antoine non le piaceva, l’intero quartiere non le piaceva. Era tutto una metafora del suo carattere, una sottile descrizione della sua attitudine, e questo la metteva in soggezione. Non le piaceva sentirsi ripetere com’era fatta dal solo aspetto impertinente di quegli edifici: una casa squallida subito seguita da un tesoro architettonico, poi di nuovo un sozzo ufficio e via a seguire un palazzo rivestito dagli antichi fasti nobiliari. Al centro di tutta quella confusione accozzata e imprevedibile, dietro un insospettabile angolo divisorio tra il bello e il brutto, la realtà e il desiderio, ecco lo splendore mozzafiato, la regolarità geometrica delle prospettive della sua piazza preferita, nascosta, incastonata come un gioiello raro. Insopportabile sentir raccontare la propria incoerenza, la propria indecisione e il disordine da una stupida strada. Di strade è pieno il mondo, pensava, eppure qualche imperscrutabile ragione la guidava sempre lì, verso la metafora di sé stessa, amando in contraddizione quell’insopportabile descrizione. Un’attitudine malata, si diceva, ma una malattia unica e un dolore sottile in cui cullarsi e sentirsi in compagnia della propria ombra.

Mentre il ragazzo posava il calice al suo tavolino si chiese cosa avrebbe pensato di lei Inés se l’avesse vista in quel momento. Il pensiero la faceva sorridere. Probabilmente l’avrebbe guardata con ammirazione, come faceva sempre, sussurrandole un verso di un qualche poeta trapassato all’orecchio e facendola sussultare dall’emozione delle corrispondenze. Le piaceva quella sicurezza di sé che solo quella ragazza sapeva darle. Parigi e Inés erano, nella sua mente, un tutt’uno. La stessa eleganza, la stessa monumentalità, la stessa stella che brilla una notte e poi s’eclissa, lo stesso quartiere che mostra un volto che al mattino non sai più chiamare nemmeno per nome.

Credeva forse che quei giorni irreali che si era concessa sarebbero bastati a far tacere quella voce che dentro di lei urlava alla vita, chiamava la felicità per nome mentre quel nome era stato sepolto. Amava Inés di quell’amore splendido, celeste, presente, ma non era quello l’amore che aspettava. Aspettava l’amore per la sua vita, aspettava di amarla sopra ogni cosa, più di ogni altra persona, più di ogni altro pensiero, più di Suzanne. Ma come fare? Sentiva ogni volta che il coraggio di non tornare le mancava. Irrazionale era la forza con cui era legata al passato e a quella donnina sottile e pensierosa, la compagna di una vita, di un dolore, di tante morti e di una rinascita.

Eppure tradire così il suo affetto non le spiaceva e Parigi era la città a cui dire grazie, il letto di Inés la culla di ogni ritorno verso Suzanne.

domenica 10 aprile 2011 1 Comment

150 sotto i portici


S
uonano i gitani all'angolo. Quanta pioggia scende dal cielo, io passo appena fuori dai portici per non star dietro alla processione di chi guarda le vetrine. Sono stonati, ma mi han detto che la bellezza è imperfetta e quel sax è dio che sbaglia soffiata e incanta i poveracci di passaggio così, misteriosamente.
Dieci metri più in là, con il sorriso ubriaco, scuote a tempo di musica la ciotola per cani con cui chiede l'elemosina. Di tanto in tanto, sempre scuotendo, la gira al contrario per mostrare a tutti che è ancora vuota e che gradirebbe se venisse riempita: quel sorriso tra il disperato e il non curante, tra l'invadente e molesto e l'intima fratellanza, non sembra farci troppo caso. E' fondamentale tanto più ballare che mangiare; è più divertente, per una volta, tralasciare il dovere e gli abiti di scena del dolore e della pena da esibire su pubblica piazza per una moneta da 50 cents. Almeno per questa notte.



La confetteria liquoreria Baratti di Piazza Castello angolo Galleria Subalpina è vistosamente aperta. Tra i suoi ori, ottoni, marmi, velluti, broccati e specchi attira l'attenzione l'apertura d'élite. Tutto tirato a lucido, tranne gli specchi che, con il passare del tempo, s'argentano qua e là, a macchie. Le memorie gozzaniane - ricordi quella poesia in cui Guido avrebbe voluto baciarsele tutte, le voluttuose donne golose? - sono forse ancor più eleganti.

[...]Perché non m'è concesso -
o legge inopportuna! -
il farmivi da presso,
baciarvi ad una ad una,

o belle bocche intattedi giovani signore,
baciarvi nel sapore
di crema e cioccolatte?

Io sono innamorato di tutte le signore
che mangiano le paste nelle confetterie.[...]



Chi passa abitualmente davanti a Baratti lo conosce, il vecchio con il violino. Sta sempre seduto dirimpetto della confetteria, sul bordo della vetrina. Gli occhiali grandi e tondi con la montatura nera spessa, la barba sfatta, la mano destra appoggiata sul ginocchio, inutile, e l'altra gesticolante per aria con il violino stretto, tenuto come capita.
Lui suona e non ha mai saputo suonare, preferendo agitare lo strumento per aria (il che è da preferire alle volte in cui lo percuote con l'archetto fatto su nel nastro adesivo) e chiedendo esplicitamente denaro a gran voce - roca -, con qualche vezzeggiativo di troppo per le signorine.



T'ho vista passando davanti al negozio, t'ho guardato e tu hai fatto lo stesso. Il tempo di passare davanti ad una vetrina. Non sei nemmeno bella, con il sole sembreresti forse carina mentre, magari, sei quasi brutta. Ma oggi t'amo, amo te e tu non lo sai. Meglio così sai, perché domani sarà un'altra volubile, veloce occhiata sconosciuta ad innamorarmi al tuo posto, e tu potresti soffrirne. Meglio così, dicevo, perché amo quello che di certo tu non sei ma io voglio che tu sia. Per oggi può funzionare, ma tra un'ora non ricorderò la forma del tuo viso, per non parlare delle tue mani, che non ho mai nemmeno viste.


E allora non è forse meglio pensare alla cena e aspettare l'amore di domani?

mercoledì 16 marzo 2011 Leave a comment

Pensa, amore mio.




Hai visto cosa accade al di là del mare, amore mio?
Pensa se venisse la guerra, quella di cui tu hai tanta paura e quella della quale io, grazie a te, ho capito di dover avere timore sopra ogni cosa.
Pensa, amore mio, se non potessimo vedere tutto quello che non abbiamo ancora visto, se non potessimo più dirci tutto quello che non ci siamo dette, se non potessimo fare tutto quello che io sto immaginando di poter ancora fare con te e che tu, probabilmente, vorresti fare insieme a me.
Ho paura della guerra. Se non si avverasse nulla di quello che immagino per il mio futuro, se non potessi più baciare la tua bocca, se non potessi più stringere le tue mani e cantare guardandoti negli occhi; se non potessi raccogliere un fiore e dartelo, se non potessi assieme a te, per la prima volta, vedere i mandorli fioriti. Se se se. Ma pensa! Come sarebbe stata inutile la mia vita se il tempo all'improvviso iniziasse a contare alla rovescia e mi stringesse nella morsa del non detto, del non fatto! Pensa, amore mio.

Che voglia che ho di prenderti e di volare sopra alla terra degli umani. Che voglia di sentirmi al sicuro dalla guerra, come se dal cielo potesse piovere solo acqua. Voglio credere che mi abbracceresti e che mi proteggeresti dal cielo quello nero, dal fuoco quello spietato, dall'odio. So che la guerra non arriverebbe mai se io e te avessimo il coraggio di fare l'amore, se tutti coloro che si amano avessero il coraggio di farlo. Se tutti gli orgogliosi tornassero a casa, scoprendo il tepore e la semplicità; se tutti i prigionieri potessero fare il biglietto del treno, scoprendo quanto è spettacolare la Terra.
Pensa, amore mio. Come sarebbe se io e te fossimo sole al mondo? Ci sceglieremmo per salvarci o saremmo salve scegliendoci?

E se non potessi mai più guardarti mentre dormi? Il pensiero mi dà una vertigine tale da lasciarmi con le ginocchia tremanti come se avessi bevuto tanto vino. E se non potessi più cercare rifugio nei tuoi rimproveri? E se fosse che... se non ci fosse più tempo? Cosa faremmo ripensandoci, nel caso potessimo ripensarci? Ci prenderemmo per la pelle, ci tireremo con forza l'una contro l'altra, in una smania di non lasciar cadere nemmeno una briciola del lauto pasto. Ci sbraneremmo con gli occhi, nella paura di non rivederci più.

Deve essere terribile, la guerra. Ho sempre un'immagine ricorrente, se ci penso: io sono da una parte di una grande città e tu sei dall'altra. In mezzo c'è la guerra più totale e disastrosa, c'è caos, ci sono macerie, ci sono pericoli, ci sono persone fuori di sè e ci sono orrori inguardabili. Ma tu sei dall'altra parte, e allora io mi dimentico di tutta la guerra, mi dimentico di tutta la paura che ho (e ne ho tantissima), mi dimentico che potrei morire, e mi metto a correre. Corro con le lacrime negli occhi come quando si va veloci in discesa sugli sci, che un po' si lacrima e si strizza lo sguardo; corro con i pugni serrati e le braccia aperte, cantando forte per scacciare la paura; correrei velocissimamente per non essere presa da nessuno e certamente sarei la donna più veloce mai vista dall'umanità perché correndo verso di te avrei più forza di un uragano. Salterei le macerie, magari prenderei una storta, magari inciamperei, ma cercherei tutte le scorciatoie e sarei agile come un gatto. Arriverei fino da te, urlerei il tuo nome e ti vedrei. Tu saresti lì, incredula e felice. Apriresti le braccia, mi serreresti a te e la guerra finirebbe. In tutto il mondo.

lunedì 21 febbraio 2011 Leave a comment

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